Retrovisione
Ci sono storie che non so ma che sono costretto a raccontare.
Sono stato costretto a scrivere di lei. È rimasta tutto il tempo davanti alla finestra di casa mia. Chiusa dentro un’auto vecchia. Vecchia più di lei. Il finestrino abbassato. Il telefono appoggiato al cruscotto. Il giornale aperto sul volante. Una croce appesa allo specchietto retrovisore. L’attesa di qualcosa è assenza di qualcosa. Non volevo scrivere. Non volevo davvero. Volevo almeno per un giorno lasciare le storie all’ipotesi di un racconto che potrebbe essere ma non sarà mai scritto. Ma lei restava lì in attesa e in assenza di qualcosa. Seduta in quella macchina davanti alla mia finestra. E io restavo in attesa che se ne andasse o mi facesse capire qualcosa. Cosa capivo di lei? Il colore scuro della sua pelle. La cura con cui ripiegava il giornale letto con calma e sfogliato in fretta. I passanti che si frapponevano tra me e lei scandivano il tempo e una ragazza passò diffondendo una vecchia canzone. Io guardai la donna nell’auto e lei guardò nello specchietto retrovisore.
Ed è lì che ho trovato la sua storia. In un locale pieno di fumo. In un fumo denso di nebbia, smog e alcool. In una città americana in cui il jazz e il blues ballano insieme perché sono costretti a farlo. Come io a scrivere questa storia. Come lei a rimanere chiusa in macchina. Fino a quando non avrò finito di raccontare. Fino a quando la sua storia non sarà finita. O la carica del telefono. O la musica jazz.
Finisce il giorno che porta via la luce. Non posso accendere la luce o lei mi vedrà. Finisco di scrivere la storia e dopo il punto vedo la donna sistemare lo specchietto retrovisore, allontanarsi in una nuvola di fumo dalla musica, dal locale, dalla città e uscire dall’auto.
Non leggerà mai la mia storia e neppure io la sua. Ma una storia scritta riempie sempre il vuoto dell’assenza e dell’attesa.