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Desolato

Era seduto sul ciglio del muro a contemplare il suo vuoto o a vergognarsene, non so. Al di là di lui. Sotto di lui. Un mare blu. Come quello che lui non vedeva dalla casa in cui mi aveva fatto crescere e vivere per tanto tempo. Come quello che si vedeva un tempo dalla casa in cui sono nata e vissuta per tanto tempo. Tempi migliori forse. Dicono. Credono. Quelli dell’infanzia. I tempi in cui un giro di bicicletta su una terrazza è un giro di vita. E lui era lì. Presente a se stesso. Assente a tutto il resto. Solo. E nel suo delirio di onnipotenza o nella presa arrogante di coscienza del suo vertiginoso abisso gridava come un dio: “O vi fidate di me e mi seguite o lasciatemi in pace”. Tuonava la sua voce, anche se intorno non c’erano nubi. C’era un ampio spazio di vuoto. Lui non vedeva, ma io sì, che a pochi passi il figlio lo osservava. Avrebbe voluto avvicinarsi al padre, se glielo avesse permesso. Se solo lo avesse visto. Non accadde. Non lo vide mai. Troppo distratto per dare attenzione. Pieno della sua boria e vuoto nella sua incapacità affettiva. 

Rimase a lungo seduto sul ciglio del muro. Un tempo indefinito in cui, notai, la sua pelle diventò progressivamente più liscia. Le mani meno macchiate. I lineamenti più tesi. Sembrava un processo di rinnovamento. A un certo punto, per un istante di luce, mi parve giovane davvero. Stavo per lasciare questa immagine che scrutavo dall’alto, quando qualcosa mi spinse a soffermarmi ancora su ciò che vidi subito dopo. Una bambina. C’era una bambina. Camminò verso l’uomo e lo abbracciò. Senza chiedere permesso. Senza alcuna paura. La figlia del figlio. E lui pianse e rise e scese da quell’altitudine desolata in cui si era arroccato. Finalmente me ne andai e riuscii a lasciarlo andare. 

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