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Fata

Mi sfiorò l’aura la fata bianca. Infilavo la mano in borsa come un automatismo d’abitudine per sfilare la chiave di casa, ma d’incanto sfilai la mano per infilarmi in una camminata lenta sulle ali dell’abito di velo che ricopriva la strada. C’era un traffico di rondinelle in cielo. Specchio del traffico cittadino. E il loro suono si mescvolava al suono delle voci di città. Qual era la città sotterranea? La nostra o la loro? Quale la città invisibile delle due? La bacchetta magica rese quel momento crepuscolare una transumanza dalla veglia al sonno e mi accorsi che i perimetri erano cornici di un quadro bellissimo. Necessari alla bellezza dell’insieme. Parte essenziale del quadro stesso. E la città, con il suo cemento essiccato, con gli odori contrastanti, con i colori assuefatti alle mode, con le crepe del terreno pericolante, con le pareti rocciose di secolare modernità, aveva qualcosa di naturale. Giunsi fino a casa in quello stato di ebbrezza cosmica. La fata bianca oltrepassò il torrente, e tornata in quel giardino segreto che si mostrava soltanto nella notte del solstizio d’estate, aprì le braccia abbracciando il mondo tutto. Come se non ne fosse figlia ma madre. Come se i figli fossero i genitori dei nonni, come se i nonni fossero appena nati, come se i nati fossero già morti e i morti fossero tornati. Tornata a casa sfilai la chiave dalla borsa e la infilai nel suo limite prestabilito, come se tutto fosse già stabilito. La precisione del dettaglio sembrava casualità. Sembrava una magia della fata bianca. Ai bambini la si racconta così… la vita. 

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